Storia e cultura

Le origini della comunità carlofortina risalgono al 1738, quando re Carlo Emanuele III di Savoia concesse l’isola a un gruppo di pescatori e commercianti originari di Pegli. I progenitori degli attuali carlofortini provenivano dall’isola tunisina di Tabarka, dove si erano insediati intorno al XVI secolo per raccogliere il corallo per conto dei Lomellini di Pegli. Da queste vicende antiche deriva l’uso di chiamare “tabarchini” (oltre che carlofortini e carolini) gli abitanti dell’isola di San Pietro, e “tabarchino” la loro lingua, conservativa variante locale di quella parlata a Genova e a Pegli.

tabarchin

La statua di Carlo Emanuele III, chiamata affettuosamente "Pittaneddu".

Dopo quasi tre secoli, il ricordo della permanenza africana può dirsi ormai scolorito, avendo lasciato traccia duratura giusto in alcune specialità gastronomiche come il cashcà, e in alcuni termini, come quello che designa il quartiere di Casséba, derivato dall’arabo Qasba. Resta invece a tutt’oggi vivissimo l’attaccamento dei carlofortini all’identità e alle radici liguri. Evidenti, oltre che nella lingua, anche nel patrimonio di usanze, piatti tipici, costumi tradizionali, architetture. E, soprattutto, nelle arti e nei mestieri peculiari dell’isola, dediti alla marineria: quella di pesca – in particolare al tonno – e quella di viaggio, sempre in giro per il mondo.

Proprio in virtù dei legami storici e culturali con Genova, e in particolare con Pegli, il 10 novembre 2004 Carloforte è stato riconosciuto comune onorario dalla Provincia di Genova e ogni anno rinnova celebrazioni di gemellaggio con Pegli; il paese è inoltre gemellato con il comune ligure di Camogli e con la città spagnola di Alicante.

Carloforte

La storia più antica

Le prime tracce della presenza dell’uomo nell’isola di San Pietro risalgono alla preistoria: si tratta di reperti funerari risalenti circa al 3000 a.C., scoperti all’interno di una grotta vicino Punta Nera, a sud del versante orientale dell’isola. Dell’età nuragica rimane segno in quattro nuraghi costruiti con blocchi di trachite appena sbozzati: La Laveria, Bricco del Polpo, Lille, Sa Papassina. Quest’ultimo, risalente alla seconda metà del II millennio a.C., presenta un’interessante pianta complessa. La collocazione dei nuraghi, oltre ad assicurare, anche qui, il controllo del territorio, era studiata per sorvegliare il braccio di mare che separa l’isola di San Pietro da quella di Sant’Antioco e poi dalla terraferma sarda.

A partire verosimilmente dall’VIII secolo a.C. l’isola fu colonizzata dai Fenici. Scavi eseguiti presso la torre di San Vittorio hanno messo in luce un tratto di cinta muraria fortificata e i resti di un edificio a pianta quadrangolare, oltreché un tesoretto di monete puniche in bronzo databili alla metà del III secolo a.C.

Dentro il paese, tra la via Salvo D’Acquisto e la salita Giorgio Rombi, scavi recenti hanno portato alla luce i resti di una necropoli punica utilizzata tra il V e il III secolo a.C., costituita da tombe a fossa e a camera: una tra le emergenze archeologiche isolane di maggior rilievo.

Tracce della presenza romana sono invece offerte da tombe rinvenute in diverse parti dell’isola. Tra loro, la testimonianza più consistente è costituita dalla necropoli ritrovata in località Spalmatore.

Facciate sul lungomare di Carloforte

La storia moderna

L’identità culturale carlofortina affonda le proprie radici nelle vicende vissute dalla originaria comunità di pescatori e commercianti pegliesi, partiti alla volta di Tabarka nel XVI secolo. Nell’isola tunisina, i progenitori degli attuali carlofortini si sarebbero stabiliti e avrebbero vissuto per un lungo periodo, vedendo dapprima prosperare le proprie attività e in seguito assistendo al loro rapido declino. L’esaurimento dei banchi di corallo ai quali erano legate buona parte delle fortune della piccola comunità, i rapporti via via più difficili con le autorità locali, portarono a una sua nuova migrazione. Nel 1738 alcuni tabarchini, guidati dal maggiorente Agostino Tagliafico, si rivolsero al re Carlo Emanuele III di Savoia, chiedendo l’assegnazione di una terra nella quale fondare il centro dei propri commerci con le altre città del Mediterraneo. La richiesta fu accolta, un atto di regolare infeudazione fu dunque firmato dal re perché l’attuale isola di San Pietro (allora ancora chiamata Accipitrum Insula, Isola degli Sparvieri) fosse concessa alla comunità che l’avrebbe di lì a poco abitata. In onore dello stesso re, il paese fu chiamato Carloforte.

Una nuova patria

Le difficoltà del periodo successivo all’insediamento sono nella memoria storica dei carlofortini: le epidemie falcidiarono i coloni appena giunti, che dovettero impegnarsi in una lunga e faticosa opera di bonifica delle aree paludose e malsane dell’isola. Altri coloni nel frattempo giungevano in aiuto da Tabarka, e qualche famiglia ligure si univa alla comunità isolana. Tra le aree bonificate, un’importanza particolare per l’economia del paese avrebbe avuto, da subito, quella destinata ad ospitare le saline. Lo stesso Agostino Tagliafico, nel valutare le opportunità offerte dall’isola che si accingeva a colonizzare, nel 1737 aveva considerato con molta attenzione i vantaggi della produzione del sale per la propria comunità. L’attività avrebbe di fatto accompagnato la vita del paese nei secoli a venire, passando dalle tecniche degli inizi, decisamente rudimentali, allo sfruttamento razionale degli impianti a partire dalla metà del secolo successivo e, infine, alla meccanizzazione dei processi produttivi, che risale a tempi a noi molto più vicini.

L'antico insediamento minerario del Capo Becco

L’isola della libertà

La storia, nei decenni successivi all’insediamento, troverà a Carloforte di che intessere le trame più complesse: nel gennaio del 1793, dopo la rottura dei rapporti diplomatici tra il regno piemontese e la repubblica d’oltralpe, i francesi sbarcano sull’isola. Con il contingente è il rivoluzionario Filippo Buonarroti – animato da ideali libertari ispirati al Rousseau –, che assieme ai carlofortini redige una nuova Costituzione per l’Île de la Liberté, l’Isola della Libertà: si tratta della prima Costituzione repubblicana comparsa sul territorio italiano. Lo stesso Buonarroti, nel 1796, ne dà testimonianza mentre si difende al processo per la congiura di Babeuf: “Fu soprattutto all’Isola di San Pietro, chiamata in seguito Isola della Libertà, che raccolsi i più dolci frutti delle mie predicazioni. La Costituzione democratica che i suoi abitanti si diedero, della quale li aiutai a redigere le disposizioni, è un monumento eterno della loro saggezza”. La presenza dei francesi dura pochi mesi, da gennaio a maggio: tanto basta perché gli ideali rivoluzionari di libertà, fraternità e uguaglianza dividano la popolazione e si arrivi a disordini e conflitti accesi. Tornata alla normalità con l’arrivo della primavera, la piccola cittadina vedrà ricollocata nella piazza la statua che vi era stata eretta in onore del Re, e che durante il periodo travagliato appena passato era stata significativamente seppellita.

L’invasione barbaresca

Non passano molti anni dallo sbarco dei francesi, e l’isola è messa a ferro e fuoco dai pirati barbareschi per due giorni. Quando ripartono, dopo il saccheggio della città, gli aggressori portano con sé 950 carlofortini, i quali per cinque anni, dal 1798 al 1803, dovranno patire la schiavitù in Tunisia. Sperano, gli isolani rapiti, nell’intercessione delle grandi potenze europee, del papa Pio VI e soprattutto del grande Napoleone. E intanto i cinque anni della più sofferta lontananza diventano il terreno fertile dove seminare le storie che u Pàize ancora oggi racconta: l’amore del console americano a Tunisi, William Eaton, per la schiava Anna Porcile, che diviene questione di stato, per la quale lo stesso presidente Jefferson deve intervenire; l’amore di Sidi Mustafà, fratello del Bey di Tunisi, per la bella carlofortina Francesca Rosso, che da schiava diviene principessa col nome di Jenet Lela Béia, e mette al mondo Ahmed, il nuovo Bey, detto il Sardo. Il ritrovamento della statua lignea di una Madonna da parte di un giovane schiavo, la custodia del simulacro (probabilmente la polena perduta di una nave) e il suo trasferimento nell’isola dopo la liberazione, avvolgono della luce del miracolo la trama fitta delle storie nate in quel periodo, il cui racconto si tramanda stringendosi alle fattezze di quella che oggi è venerata dai carlofortini come la Madonna dello Schiavo. Portata in processione ogni anno il 15 novembre, tiene viva la memoria dei fatti storici del passato, oltreché la devozione degli isolani.
Ancora per anni le incursioni piratesche avrebbero tormentato la piccola città, prima della risoluzione definitiva del problema in tutto il Mediterraneo. A testimonianza della paura suscitata dalla comparsa all’orizzonte delle vele barbaresche, restano le torri di avvistamento, i fortilizi e ancora qualche tratto delle antiche mura di cinta nella parte alta del paese.

Resti della miniera di Punta Nera

Tracce dei carri sulle vecchie mulattiere

Il XIX secolo e le attività minerarie

L’inizio dell’Ottocento per Carloforte è segnato da alcune importanti novità: nel 1808 il re Vittorio Emanuele I accorda al piccolo centro isolano il titolo e i privilegi di Città; tre anni dopo è istituita la Regia Dogana. Alla metà del secolo numerose società minerarie avviano lo sfruttamento dei giacimenti del vicino Sulcis: il porto della cittadina – l’unico della costa sud-occidentale sarda capace di accogliere e smistare le imbarcazioni cariche di minerale alla volta delle industrie continentali – assume un’importanza centrale e procura all’isola un lungo periodo di floridezza. Dalle coste sarde il minerale estratto – la galena, o galanza nella lingua di qui – viene caricato sui battelli carlofortini ad opera dei galanzieri. Portato ai depositi dell’isola, sosta in attesa di essere imbarcato sulle grandi navi ormeggiate nella rada. Il porto è un brulicare continuo di vele latine. L’ambiente portuale dei galanzieri è quello dove nascono le prime lotte sindacali e si distinguono figure d’eccezione, come il piemontese Giuseppe Cavallera, pioniere del socialismo in Sardegna. Nel decennio successivo al 1860 la richiesta di manodopera aumenta e giungono numerosi sull’isola marinai provenienti dalla vicina Sardegna, oltreché da Ponza, Ischia, e dagli altri scali campani: saranno le loro capacità marinaresche, tra l’altro, a far rinascere sull’isola la tradizione della pesca del corallo, all’epoca quasi scomparsa. Grazie all’importanza assunta dalle attività estrattive del Sulcis e dell’Iglesiente – e di quelle, in piena espansione, avviate nella stessa isola di San Pietro – all’inizio del Novecento Carloforte si presenta come il secondo scalo della Sardegna quanto a traffico marittimo e a volume delle merci trasportate.

Le miniere dell’isola di San Pietro

Il nuovo secolo aggiunge ai fasti derivati dalle attività minerarie della Sardegna sud-occidentale, quelli dovuti allo sfruttamento dei giacimenti di ocra gialla e rossa e di manganese presenti nel territorio della stessa Carloforte. Se nelle attività di scavo verranno impiegati per lo più operai provenienti dall’isola maggiore, fornendo loro un alloggio nel villaggio minerario del Becco, gli imprenditori carlofortini saranno impegnati soprattutto nel trasporto via mare dei minerali estratti dai giacimenti di Capo Rosso e di Punta Becco verso i colorifici della Toscana.
Dopo la tragica battuta d’arresto rappresentata dalla Prima Guerra Mondiale, giunto il lungo periodo dell’autarchia voluta dal fascismo, nei siti minerari isolani del Macchione, delle Bocchette, di Cala Fico e Punta Nera, la produzione di manganese riprese con nuovi e più potenti mezzi. La massima efficienza degli impianti e il vertice della produttività furono raggiunti negli anni tra il 1938 e il 1943; ciò nonostante, già nel Dopoguerra, le miniere isolane, ormai poco redditizie, vennero chiuse. Nel frattempo alcune officine locali specializzate nel settore minerario, come la Bernard, la futura SACOM, o la Meccanurgica, avevano avuto modo di farsi apprezzare anche oltre i confini nazionali. Dopo molti decenni di lavoro in Albania, in Romania e in Bulgaria cessarono le attività tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta. Qualche segno dei loro trascorsi si riconosce ancora nei pochi macchinari rimasti nei locali oggi occupati dal ristorante La Nave.

Il forte Santa Teresa